“L’opera dello scrittore è soltanto una sorta di strumento ottico ch’egli offre al lettore per permettergli di scorgere ciò che, forse, senza il libro, non avrebbe veduto in se stesso. Il riconoscimento entro di sé, da parte del lettore, di quello che il libro dice è la prova della verità di questo e, viceversa, almeno in una certa misura, giacché più di una volta la discordanza fra questi due testi può essere imputata non all’autore, bensì al lettore”
Marcel Proust “Il tempo ritrovato”
Alla carta geografica
«Adesso chiudete libri e quaderni!» proferì la professoressa di Storia, una zitella inacidita piccola e ossuta con i lunghi capelli grigiastri raccolti in una treccia che le coronava il volto cereo in cui due occhietti a spillo erano pronti a perforare i suoi allievi.
Di un’età indefinibile che la faceva sembrare una donna d’altri tempi, appariva lontana e temibile, addirittura sadica quando un cinico sorriso le illuminava il volto.
Non poteva attuarsi alcun tipo di dialogo con lei, solo precise risposte ad altrettanto precise domande.
Era il 27 gennaio 1967 e qualche ora prima la radio aveva annunciato il suicidio di Luigi Tenco.
Marzia, una ragazzina sensibile ed emotiva, si era recata a scuola in preda ad una profonda inquietudine, con il conforto almeno di non correre il rischio di un’interrogazione.
Era stata la stessa insegnante a comunicare agli allievi che quel giorno non avrebbe interrogato.
Ma la frase d’esordio non prometteva niente di buono, era il caratteristico leitmotiv che anticipava le interrogazioni.
«Scusi, professoressa» intervenne Guido, il capoclasse, un ragazzo rubicondo con il volto coperto di efelidi «lei ci aveva detto che oggi avrebbe solo spiegato!».
Con un’espressione tra l’ironico e il beffardo l’insegnante, mantenendo inalterato il self-control, si trincerò dietro la labile giustificazione che si trattava semplicemente di un ripasso di argomenti già svolti. Il panico si era letteralmente impossessato di Marzia, che, seduta in prima fila, si apprestava a chiuder il manuale di storia di quarta ginnasio come era stato ordinato con voce secca e tagliente.
Dio mio, fa’ che non chiami proprio me!, pregò in cuor suo la ragazza mentre nella mente andava configurandosi con insistenza la dinamica del suicidio del giovane cantante. Però, lui aveva avuto il coraggio di premere il grilletto! pensava tra sé e sé. Era un po’ di tempo che anche nel suo animo avevano nidificato delle idee autodistruttive ma lei non ne aveva fatto cenno con nessuno.
L’insegnante tossì, inspirò, si sistemò il colletto della camicia, diede un’occhiata alla scolaresca, aprì il registro e con l’indice della mano destra scorse i cognomi degli alunni soffermandosi circa a metà dell’elenco.
«Liquidi Marzia, esci!» intimò alla ragazza che sentì lo stomaco contrarsi per l’apprensione. Costei si alzò dal banco e su segnalazione della docente, si avvicinò alla carta geografica dell’antica Grecia.
«Bene, ora ripassiamo insieme le guerre persiane, naturalmente indicando battaglie e luoghi sulla cartina!» disse con voce melliflua la professoressa.
La sventurata, emettendo la voce gutturale e strozzata tipica dell’ansioso, cercò di riportare alla memoria le cause delle guerre e di collocare ne tempo gli avvenimenti: Ma l’angoscia si era a tal punto impadronita di lei che confuse Maratona con Filippi e Dario addirittura con Alesando il Macedone! Fu certa di percepire una vibrazione sarcastica nella sonora risata dell’insegnante che allungava orrendamente le labbra sottili e violacee.
Marzia aveva sviluppato in modo marcato l’udito e l’odorato, forse a compensazione di una forte miopia visiva. Le immagini le apparivano offuscate e confuse a causa di un obsoleto quanto dannoso consiglio datole in famiglia di non portare gli occhiali che le avrebbero deturpato il volto. Li indossava solo se era costretta, quando doveva copiare qualcosa dalla lavagna o quando guardava un film al cinema, affrettandosi a toglierli e a nasconderli furtivamente non appena ritornava la luce per l’intervallo. Si sentiva un mostro con le lenti addosso, per cui era solita camminare per la strada senza riconoscere nessuno, a volte tacciata di snobismo per non aver salutato un’amica.
Anche in quel momento i famigerati occhiali stavano a riposo nella custodia di velluto verde sopra il banco a pochi metri da dove si trovava lei.
E quando l’insegnante le chiese di indicare sulla carta la Beozia e il Peloponneso, le sarebbe bastato dire: «Mi scusi, professoressa, devo prendere gli occhiali perché non ci vedo!». Ma Marzia non riuscì a spiccicare sillaba, bloccata dal terrore. Rimase ferma al suo posto stecchita come un baccalà, zimbello dei compagni e di se stessa. Forse si aspettava che fosse l’insegnante a ricordarsi del suo difetto alla vista e che premurosamente la esortasse a prender gli occhiali, ma ciò non avvenne. Con la vista appannata per le lacrime che si erano formate, guardava sulla carta geografica le grandi e informi macchie colorate senza nome. Desiderò morire.
Da un soffocato vocio della scolaresca le parve di intuire la solidarietà dei compagni che avevano capito il suo disagio. Ecco adesso il capoclasse o qualcun altro alzerà la mano, prenderà la parola in mia difesa e spiegherà alla professoressa il problema!, pensava in cuor suo, ma nessuno proferì parola.
Furono le parole dell’insegnante a rompere il silenzio: «Allora, Marzia, sai indicarmi o no la Beozia?».
Cocenti lacrime ormai senza freno scorrevano per le guance arrossate della ragazza, che oppressa dalla rabbia e dalla vergogna, si sentiva svenire.
Ancora una volta il silenzio fu rotto dalla stridula che incalzava: «E il Peloponneso, dov’è, dov’èèè?».
Marzia si era ormai completamente estraniata dalla situazione, il suo pensiero era rivolto a Luigi Tenco che, bene o male, aveva avuto il coraggio di spararsi alla testa.
«Vai al posto!» concluse in modo secco l’insegnante guardandola con disprezzo.
Marzia come un automa andò a sedersi, cercò nella tasca del grembiule ma non trovò niente, così accettò il fazzoletto che Barbara, la compagna di banco, ammutolita, le aveva offerto.
Si asciugò le lacrime e guardò l’orologio: mancavano solo pochi minuti alle tredici.
La campanella finalmente suonò. Le parve un suono strano, diverso dal solito, annunciatore di perdita. La ragazza preparò la cartella, infilò gli occhiali nella tasca del cappotto, si mise in fila ed uscì dal grande portone del Liceo “Leonardo da Vinci”. Camminava lentamente sotto il peso della cocente umiliazione. Le lacrime continuavano a rigarle le guance ma una sensazione di pace interiore pian piano venne a sostituirsi all’angoscia.
Quando, all’altezza del capitello di San Rocco, giunse alla seconda svolta che l’avrebbe portata a casa, Marzia istintivamente tirò dritto. Accelerò il passo e continuò a camminare rasente la carreggiata per ore e ore senza sapere dove andava. Alcune automobili avevano rallentato accostandosi, due ciclisti le avevano fischiato.
Quanta strada aveva fatto, non lo sapeva nemmeno lei...
Non sentiva né il freddo né la fame, inghiottiva le lacrime e camminava. Ad un certo punto volle guardare l’orologio. Le quattro! Aveva camminato per tre ore! Chissà cosa fanno a casa non vedendomi tornare, pensò, chissà se l’hanno riferito a mio padre! Forse verrà lui in cerca di me! Forse hanno chiamato i carabinieri...
Il padre! Da quanto tempo non lo vedeva? Tre, forse quattro mesi... Completamente immersa in questi pensieri, Marzia non si accorse di essere scivolata dal tratto riservato ai pedoni nella corsia stradale. E nemmeno riuscì a sentire il forte suono del clacson del camion che stava per superarla...
( in “Pensieri d’autore”, Ed. Ibiskos 2005)
Il bisturi dell’autostima
«Prego, attendete qui!» disse con voce invitante l’infermiera ancor più seducente nel succinto camice che faceva risaltare le lunghe gambe affusolate. «Pazientate solo qualche minuto, il dottore e l’anestesista sono già in sala operatoria» continuò mentre faceva accomodare la coppia nella sala d’attesa vuota. Accarezzò i capelli della ragazza che carichi di elettricità si sollevavano e, porgendole un sedativo da ingerire con un po’ d’acqua: «Prendi, servirà a tranquillizzarti, Alice. Tutto o.k.?»
«Sììì, grazie» fu la flebile risposta della giovane che cercava di convincersi che tutto era realmente a posto.
«Serve solo una firma qui e un’altra quassù per il nulla osta» disse l’infermiera indicandole gli spazi nel contratto, «non occorre che tu lo rilegga, l’hai già visto l’altra volta!».
Alice si chinò sul tavolino stipato di riviste patinate e con gesto automatico scrisse nome e cognome con una grafia che risultò sensibilmente diversa da quella usuale. Poi consegnò il plico alla donna che con un sorriso smagliante scivolò nella stanza da cui era venuta.
«Tesoro, andrà tutto bene, non sentirai niente. E poi, sei nella mani di un mago della chirurgia plastica... ti farà un lavoretto favoloso...diventerai una bomba! Tutti i miei amici mi invidieranno!» esclamò Marco euforico.
Queste parole giunsero alla ragazza come una fitta allo stomaco. Scrutò il fidanzato nelle nere iridi che per l’eccitazione luccicavano dalle fessure delle palpebre. Un brivido la percorse tutta provocandole una strana e tormentosa sensazione. Chi era quell’uomo? pensò fra sé e sé. Era quello il suo ragazzo, la persona cui lei aveva donato il suo cuore? Improvvisamente si affastellarono alla mente le immagini delle foto esaminate assieme negli ultimi mesi. Stereotipate modelle e showgirls seminude dai perfetti prorompenti seni disegnati dal bisturi, sex-symbols innalzate a icone della civiltà dell’apparenza. Alice cercò di mettere a fuoco non tanto le eloquenti fotografie, quanto piuttosto le espressioni e le frasi pronunciate allora da Marco. La ricostruzione si rivelò penosa per la ragazza che inconsciamente aveva rimosso quelle emozioni archiviandole nella zona buia della memoria. Ma un po’ alla volta esse riaffiorarono in tutta la loro cruda limpidezza: la sorpresa, lo smarrimento, l’umiliazione, la rabbia, la paura dell’abbandono...
“Queste mi fanno impazzire” così aveva dichiarato il partner indicando le poppe sode ed esplosive di una velina. E lei, come lo ricordava bene adesso!, aveva mascherato il suo orgoglio di donna ferita accondiscendendo con una vocina spersonalizzata: ”Davvero? Ti piacerei di più se anch’io...?” “Certo con due meloni così saresti perfetta” aveva risposto sboccatamente Marco stirando le labbra in un sorriso che ora le parve un ghigno sarcastico. Come un ariete che percuote e ripercuote la porta fino a farla crollare, così la sottile e insistente opera di persuasione del fidanzato che pure minimizzava i rischi della mastoplastica additiva, aveva portato Alice ad uno stato di totale remissività.
Eppure quando si guardava nell’intimità della sua camera, lo specchio le rimandava l’immagine di un fisico snello e proporzionato, di un viso fresco incorniciato da una cascata di fluenti capelli castani. Nel pallido incarnato due grandi occhi azzurri facevano trasparire una sottile vena di malinconia. Perché allora doveva umiliare i suoi seni con un’impietosa incisione e col marchio di indelebili cicatrici? E poi c’era l’incognita del post-intervento: se lei non si fosse riconosciuta in quel rigonfiamento, se avesse sentito le protesi come degli intrusi, dei clandestini abusivi nel suo corpo? Alice comprese che stava per infliggersi una violenza. Si sottoponeva all’operazione per paura di perdere la persona che lei amava ma dalla quale non era riamata! Questa l’amara verità. Se Marco le avesse voluto veramente bene, l’avrebbe accettata per quello che lei era dentro e fuori. Forzandola sottoporsi a quell’intervento egli dimostrava di amare solo se stesso e di usare lei per soddisfare appieno il suo sterile e infantile narcisismo.
«Tesoro, guarda, ti sono comparse delle macchie rosa nel viso e anche nel collo!» esclamò Marco sbalordito toccandole le guance con le dita. La ragazza, bruscamente distolta dai tristi pensieri, sussultò quasi sentendo su di sé il peso di quelle chiazze e corse in bagno. Si guardò allo specchio allargando la scollatura a V della maglietta: l’epidermide del volto, del collo e del busto era completamente coperta da bollicine violacee che incominciavano a darle prurito.
«Alice, dove sei?» chiedeva con voce squillante l’infermiera tornata in sala d’attesa.
La vide uscire subito dopo dal bagno sconvolta. «Fa’ un po’ vedere, mamma mia che disastro, vieni con me!» disse accompagnandola in sala operatoria, dopo aver lanciato un’occhiata al giovane che, col volto stralunato, stava sprofondato nella poltrona. Alice la seguì nella grande sala illuminata a giorno pregna di un pungente odore di disinfettante e farmaci.
«Dottore, guardi qui!» disse l’infermiera al medico che stava controllando con l’anestesista la dose di fenantyl.
«Un’orticaria, non c’è dubbio, un’orticaria di origine psicosomatica!» proferì lo specialista osservando attentamente e tastando le chiazze cutanee. «Alice, oggi l’operazione non si può fare, sai?» continuò dandole un buffetto sulle spalle. «Bisogna rinviarla, non preoccuparti, è successo anche ad altre ragazze» e rivolgendosi alla collaboratrice: «Eva, controlla se c’è posto il dieci giugno»
«No, dottore, mi scusi, ho cambiato idea. Ho deciso che mi tengo il seno che ho! Mi dica se devo pagare qualcosa per l’annullamento» affermò Alice con una sicurezza che anche a lei stessa sembrò innaturale.
L’infermiera si stava sistemando i bottoni del camice, sorrise chiudendo il libro degli appuntamenti.
«Per cortesia, signorina Eva, mi chiami un taxi!» chiese la ragazza con un timbro di voce che riconobbe suo.
Antologia del Premio Letterario “Giacomo Zanella” 1ª edizione 2006
“Cieli nuovi Terre nuove”
Stigma
Uno scroscio di applausi intercalati da fragorose richieste di bis risuonò nella sala gremita di gente mentre il sipario lentamente si chiudeva. Incalzati dal crescente battimani del pubblico, uno alla volta gli attori sgusciarono fuori dai drappeggi rosso amaranto, fieri di concedere l’inchino, fino a ricongiungersi poi tutti insieme in un festoso semicerchio sul bordo del palcoscenico. Tenendosi per mano Pedro-Giulio (animatore della comunità), Re-Andrea (ospite affetto da schizofrenia), Alejandra-Silvia (attrice professionista), Laurenzia-Adele (ospite affetta da psicosi depressiva), Frondoso-Mario (assistente sanitario), Gomez-Stefano (psicologo), Giudice-Sergio (psichiatra), Flores-Piero (ospite affetto da disturbo bipolare), diedero inizio ad una ritmica danza, simile al movimento oscillatorio della risacca.
Gli spettatori, pur consapevoli che fra gli interpreti c’erano anche delle persone sofferenti di disturbi mentali, non avevano potuto distinguere l’attore professionista dall’infermiere, lo psicolabile dal medico. Tutti i commedianti erano uguali sul palcoscenico, portentoso collante dei diversi cocci di una stessa fragile umanità! Lì non sussistevano differenze fra chi era affetto da un deficit, chi ne era privo o chi addirittura lo curava. La parificazione del gruppo costituiva una schiacciante vittoria contro lo stigma, l’ancestrale pregiudizio che attecchisce nelle menti delle persone cosiddette “normali”nei confronti dei malati psichici marchiati a viva ustione. L’atavico terrore nei riguardi della malattia mentale potrebbe spiegarsi col terrore di diventare pazzi, anche se la paura della follia non è altro che la paura della vita... E Adele, che il mese successivo avrebbe compiuto ventisei anni, alla vita aveva da tempo abdicato. Visibilmente emozionata guardava nella marea di persone che stipavano la platea del teatro con l’inquietudine di chi desidera e contemporaneamente teme di riconoscere volti noti. Nella seconda fila, avvolta in uno sgargiante scialle arancione, aveva individuato la sagoma della madre, seduta accanto alla sorella maggiore.
Non riusciva a intravedere il patrigno e il posto vuoto vicino alle donne ne acutizzava l’assenza. Aveva ancora nelle labbra il sapore del bacio che le aveva dato Mario, l’infermiere che aveva personificato Frondoso, lo sposo di Laurenzia, il suo sposo! Quel bacio sia pure a fior di labbra, le aveva procurato una forte scossa, un brivido di piacere che da infinito tempo non provava così, quando si era sentita stretta a lui, aveva istintivamente prolungato il contatto con quel corpo rassicurante. Attraverso lo scudo protettivo della recita le emozioni rimosse erano riaffiorate in tutta la loro potenza. Danzando stordita dai cullanti ritmi andalusi, guardò alla sua sinistra il volto smunto del Giudice schiacciato dalla parrucca di boccoli bianchi. Com’era diverso dall’abituale immagine dell’asettico psichiatra che mensilmente stendeva il percorso terapeutico e le prescriveva la Clozapina e il Prozac! E come risuonava strano il timbro della voce dello psicologo nell’interpretazione del malvagio Gomez, il crudele tiranno di provincia! Era stato proprio lui a far rapire Laurenzia al consorte il giorno stesso delle nozze. La donna, ferita e scapigliata, sorretta da una forza straordinaria, era riuscita a fuggire alla violenza di Gomez e addirittura ad arrivare alla Sala del Consiglio per incitare il popolo alla rivolta. Ma quella che allora fuoriusciva sublime e fiera non era la collera di Laurenzia, ma l’antica rabbia di Adele, riesumata dalla nicchia più profonda della mente dove era stata a lungo compressa perché causa di insopportabile sofferenza. Osservò le dita delle sue mani, lunghe e affusolate. Non se ne era mai accorta prima; fino ad allora si era sentita una creatura sbiadita, incorporea, non meritevole d’essere né ammirata né amata. Nemica del proprio corpo, ne aveva castigato le forme entro ampi e informi abiti di taglia più grande. Spesso sentiva l’urgenza di lavarsi, di mondare il suo fisico macchiato di una colpa segreta e lacerante che la intaccava fino alle radici. Nelle sedute settimanali con il terapeuta, quando si arrivava alla focalizzazione del perché di quel bisogno di purificazione, Adele si bloccava, oppressa da un’angoscia muta e segreta.
Guardò istintivamente l’attaccatura del seno a stento trattenuto nel bustino rosso vermiglio. Quella macchia di colore acceso la risucchiò in un vortice di immagini rimaste per lunghi anni latenti nel silenzioso sarcofago della mente, nella caverna del vuoto costruito per sopravvivere. Era un freddo pomeriggio di dicembre. Un silenzio irreale avvolgeva la casa. Improvvisamente il suono di una voce nota: “Adele, vieni qui!”. La luce schermata dell’abat-jour illuminava a tratti il profilo aguzzo del patrigno. Adele, che allora aveva sei o sette anni, lasciò cadere la bambola di pezza e gli corse incontro pavoneggiandosi nel nuovo scamiciato. “Hai visto che bel vestito nuovo, papi? L’ha fatto la mamma. Dov’è la mamma?”
“È uscita per gli acquisti con Stefania” rispose l’uomo prendendola in braccio. Accarezzandole i riccioli neri, le sussurrava:”Tesoro, che bel vestito rosso, ti sta proprio bene!”. La piccina lo aveva baciato sulla guancia spinta dall’automatismo di chi dà per ricevere in cambio affetto. Ma la pelle dell’uomo era ispida e così si era subito ritratta. “Fammi vedere come sei bella, Adele, fa’ vedere al tuo papi!” La bimba aveva sentito il calore delle mani che le lisciavano le gambette magre insinuandosi nelle fessure della gonna arricciata... La danza era terminata, le musiche dissolte. Marino chiacchierava seminascosto in un nugolo di persone. Spinta da un’energia sconosciuta a riconciliarsi con il suo io più profondo, Adele guardò in direzione della sedia vuota, poi corse ad abbracciare la madre e la sorella che stavano salendo sul palco. Calde lacrime di gioia le rigavano le guance arrossate...
Antologia del Premio Letterario “Giacomo Zanella”
2ª edizione 2007
“Silenzi e parole ”
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